III Domenica di Quaresima
Commento al Vangelo della III Domenica di Quaresima
Lc 13,1-9
Anno C
Un brano tutto lucano è proposto oggi alla nostra meditazione, ma con tratti che possono sconcertare. Noi possiamo essere subito d’accordo con Gesù quando dice che la morte violenta dei galilei nel tempio per mano di Pilato, o la disgrazia che ha colpito i diciotto su cui è caduta la torre di Siloe non significano che quelli fossero più peccatori degli altri. Questo è un discorso che ci sta molto bene, anche perché il vizio di vedere dappertutto l’intervento punitivo di Dio non è ancora morto e le disgrazie, purtroppo, non sono ancora finite, né, presumibilmente, finiranno. Ma che logica c’è nell’aggiungere: «Se non vi convertite, perirete tutti»? Forse che Gesù si contraddice e ritorna a dire che i peccati attirano le sciagure? Non è un po’ strano trovare nell’evangelo di Luca un Gesù che minaccia rovina e promette distruzione?
Una prima serie di indicazioni onde interpretare correttamente il brano è data dall’esame del contesto in cui esso è situato. Il passo che ci interessa è preceduto dalla parabola dei servi vigilanti (12,35-48), dal detto sul fuoco, la spada e la divisione («non sono venuto a portare la pace, ma la spada»: 12,49-53), dall’invito a saper leggere i segni del tempo (12,54-57), dal suggerimento di mettere a posto i conti prima di presentarli al giudice (12,58-59). L’insieme di questi testi parla dunque di vigilanza, di segni da leggere con attenzione per trarne ammaestramento, di giudizio a cui andare preparati, di decisione da prendere accettando la divisione e la spada, in una parola la violenza di Gesù che è qui contrapposta alla pace, che era allora la pax romana, cioè una pace basata sull’oppressione e sul dominio dei popoli.
Situato in questa luce di fondo il nostro brano si illumina, e le sue parti si integrano a vicenda: i due fatti di cronaca sono letti da Gesù come un invito alla conversione, la parabola del fico è offerta come immagine della pazienza di Dio, anche se si tratta di una pazienza a termine.
Cosa voleva da Gesù la gente che era andata a raccontargli dei galilei fatti uccidere da Pilato? Forse si aspettava una sua reazione di decisa protesta (dopo tutto era galileo anche lui) e un violento attacco al potere romano. O la netta condanna, in nome della sacralità del luogo, di un massacro che era anche un sacrilegio. Oggi gli avrebbero chiesto di firmare un manifesto di protesta. O forse era gente che usava (e ce n’è ancora) mettere a posto la propria coscienza denunciando il peccato degli altri: quei galilei, teste calde, erano andati a fare una manifestazione proprio nel tempio, Pilato li ha puniti, gli sta bene! Gesù dà una risposta che lascia tutti senza parole. Rifiuta di legare la disgrazia al peccato, e quelli che normalmente non fanno questo collegamento, noi per esempio, si sentiranno subito tranquilli: è una disgrazia, e basta. Ma Gesù non si ferma qui, e quello che dice dopo non lascia nessuno fuori. Se qualcuno pensava di essersela cavata a buon mercato deve ricredersi: «Se non vi convertite, perirete tutti». Non è dunque che il peccato sia la causa delle sciagure: queste sono imputabili alle leggi fisiche (i terremoti, per esempio, che continuano a funestare la terra), al caso, alla libertà umana, e certo anche alla cattiveria. Quello che Gesù intende dire è che certe disgrazie, certi segni di morte, dovrebbero aprirci gli occhi e metterci davanti il rischio di una morte ben più grave, quale la perdita della vita eterna. Per evitare questa, che è la più brutta delle disgrazie, non c’è che una strada: la penitenza, cioè la conversione di mentalità.
Per indicare questa esigenza di conversione il testo lucano usa tutte e due le volte il termine «metanoia», ormai abbastanza familiare nel linguaggio cristiano, un termine ricco di connotazioni positive, che si è voluto reintrodurre proprio per ovviare, credo, all’aspetto piuttosto negativo, e un po’ lugubre, di cui si era rivestito nei secoli il termine «penitenza». Si tratta, etimologicamente, di andare oltre (metà) il modo normale di pensare. Si tratta in pratica, per noi, di aderire a Gesù e alla sua parola, perché è lui, in fondo, il segno che ci viene offerto: che non ci capiti di commettere l’imperdonabile errore di non capire il segno e di non accoglierlo. Il tempio di Gerusalemme e la sua religione non danno sicurezza, vi si muore; la torre di Siloe con la sua baldanza non protegge, anzi rovina su quelli che confidavano in lei per la loro difesa. La salvezza viene da Gesù, che sta andando anche lui a Gerusalemme per morirvi, ma ci va non come portatore di un progetto di pace oppressiva, ma per diventare segno a tutti dall’alto di una croce.
L’appello alla conversione è urgente, ed è fatto nello stile di Gesù: la gente che va a porgli dei problemi di «altri» è violentemente coinvolta e richiamata a guardarsi addosso.
Gesù non sopporta discorsi evasivi o chiacchiere sulla cronaca. Possiamo anche farli, ma deve venire il momento in cui il confronto con lui ci porta a una decisione. A questo punto del Vangelo non basta più non essere contro di lui: bisogna essere per lui.
La parabola del fico sterile va letta in connessione con quanto detto fin qui. All’apparenza sembra contraddire il discorso precedente dove l’alternativa era secca: o conversione o rovina. Il vignaiolo invece pazienta e attende. Ma è provvidenziale che questi due testi siano stati messi assieme, ed è altamente probabile che Luca l’abbia fatto apposta. Noi non siamo costretti a scegliere tra il Gesù che scuote e parla di rovina, e il Gesù che invoca pazienza dal padrone della vigna. Separare e distinguere andrà bene per una certa filosofia, o per ragionare un po’ sulle cose. Quando si entra nel complesso gioco delle nostre decisioni il separare giova poco. Perché Gesù è l’uno e l’altro e noi abbiamo bisogno di tutti e due questi discorsi. L’urgenza della conversione non deve diventare terrore di fronte a un Dio che castiga, né la pazienza che attende ancora un anno può essere utilizzata come pretesto per prolungare la pigrizia cullandosi nell’auto-giustificazione. Il Vangelo va letto tutto, e va preso per quello di cui abbiamo bisogno nel momento in cui lo leggiamo. Giocarci su non serve: si risolverebbe in una tristissima beffa, contro di noi.