V Domenica di Quaresima
Commento al Vangelo della V Domenica di Quaresima
Gv 8,1-11
Anno C
Ancora una volta sul cammino della Quaresima troviamo un messaggio di perdono. Qualcuno potrebbe perfino averne paura: si sa quanto l’insistenza sulla bontà di Dio possa far cadere nella faciloneria, e tutto sommato tanti di noi sono pur sempre convinti che per ottenere un efficace cambiamento di vita sia ancora da preferire il tono severo della minaccia, il richiamo alla legge e al dovere, quando non addirittura l’insulto per chi ostentatamente continua a sbagliare. Atteggiamenti mentali e di cuore che sarà bene tener presenti mentre ci si accinge a meditare su un episodio che, ancora una volta, vede sulla scena scribi e farisei da una parte contro Gesù che se ne sta solo dall’altra; in mezzo una donna «sorpresa in flagrante adulterio», e a completare il quadro, sullo sfondo, il popolo che sta ascoltando Gesù nei cortili del tempio.
Il punto controverso è l’applicazione della legge di Mosè. Il punto sottinteso è che non si può pretendere di stare dalla parte di Dio se non si sta dalla parte di Mosè. Gesù è come spinto contro un muro: pare che non gli resti via d’uscita. L’ostilità dei capi d’Israele è andata crescendo e contro di lui la decisione è già stata presa: «i Giudei cercavano di ucciderlo» (Gv 7,1). Mancava ancora un qualche insuccesso plateale che lo squalificasse davanti alla folla, una risposta sbagliata che permettesse di metterlo sotto accusa davanti a tutti. Ed ecco l’occasione d’oro: una donna colta in adulterio. La legge impone di lapidarla. C’è da rabbrividire di raccapriccio davanti a questo macabro furore che vuole una morte, quella della donna, accettando al massimo di scambiarla con un’altra morte, quella di Gesù. Strano zelo di questi osservanti della legge che pensano di dar gloria a Dio ammazzando la gente. Sembra perfino di indovinare in loro la gioia cattiva del trionfo: finalmente hanno trovato l’occasione che mancava, e si preparano a sfruttarla fino in fondo.
«Tu che ne dici?»: Gesù non dice niente. Gesù non è uno che va a caccia di adultere da lapidare.
Gesù sta passando questi suoi ultimi giorni tra il monte degli Ulivi e il tempio (Gv 8,1-2): sul monte per raccogliersi in preghiera, nel tempio a insegnare, perché «tutto il popolo andava da lui, ed egli, sedutosi, li ammaestrava» (v. 2). Gesù tace. Anche al processo tacerà. Lui non ama il furore e l’agitazione. È il saggio che sa il valore del silenzio: solo su questo terreno può germinare la parola buona, la parola ricca, la parola vera.
Gesù tace, e la situazione si capovolge. Sono gli altri che vengono a trovarsi nell’imbarazzo. Gesù scrive per terra: che cosa? È inutile cercarlo. Una cosa è chiara: rifiuta di entrare in dialogo con i suoi accusatori. Tace, e lascia tra sé e loro uno spazio che dovrebbe essere di riflessione e invece serve solo ad aumentare l’agitazione e l’impazienza di chi vuole la sua risposta.
Quando decide di rispondere ciò che dice è terribile «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E su queste parole scende di nuovo il silenzio, e la tensione cresce. Gesù non rinnega la legge: chiede solo che chi se ne fa paladino per giudicare gli altri sia il primo a praticarla. Se vedo una pagliuzza nell’occhio del fratello dovrei avere come prima reazione la consapevolezza della trave che c’è nel mio occhio. E poiché tutti lasciano il campo, «cominciando dai più anziani fino agli ultimi», si deve dedurre che nessuno ha il diritto di condannare. La legge resta, ma non può essere pretesto per celebrare il trionfo della morte. Il peccato resta, ma è il peccato di tutti, e non può diventare in bocca ad alcuni motivo per condannare altri. La parola di Gesù taglia alle radici ogni ipotesi di piedistallo su cui assidersi per giudicare il prossimo.
Alla fine non resta più nessuno se non Gesù e la donna. Ora che l’aria si è ripulita, ora che il furore omicida si è spento, ora che l’agitazione si è dissolta sotto l’urto del pronunciamento di Gesù, rimane libero lo spazio per il dialogo. Non ci sono più molte cose da dire, una volta che la condanna è cancellata. Una sola cosa conta: «Neanch’io ti condanno». Era l’unico che poteva farlo, perché era l’unico senza peccato. Non lo fa, e per la donna è la vera liberazione. Dal silenzio di Gesù è uscita questa parola regale. La condanna avrebbe chiuso ogni spiraglio, forse avrebbe chiuso una vita. Gesù lascia aperta la porta, perché lui stesso si è proclamato la porta. «Va, e d’ora in poi non peccare più». Resta una vita da vivere, e il perdono rimette in cammino.
Noi non siamo eroi. Talvolta ci creiamo l’illusione di esserlo erigendo il nostro trionfo sul peccato degli altri. Ci sentiamo grandi perché attorno a noi vediamo gente che sbaglia. Gesù, provvidenzialmente, ci distrugge questa illusione e ci rimanda alla nostra dimensione di peccatori. Ma non per umiliarci, solo per dirci, ogni volta, «va, e non peccare più». Perché il primo mezzo per superare il peccato è riconoscerlo e decifrarlo senza maschere e stupide coperture.
L’altro passo deriva dalla coscienza di avere un padre che perdona, un fratello, Gesù, che non ci condanna. Proprio perché egli ci vuole in cammino. E in ogni cammino è necessario sapere bene dove si deve andare, e insieme bisogna avere sufficienti risorse ed energie per procedere.