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  • 26 Novembre 2017: XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

    Letture:

    Ezechiele 34,11-12.15-17; Salmo 22; 1 Corinzi 15,20-26.28; Matteo 25,31-46

     

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi". [...]

     

    Il Vangelo dipinge una scena potente, drammatica che noi siamo soliti chiamare il giudizio universale. Ma che sarebbe più esatto definire invece "la rivelazione della verità ultima, sull'uomo e sulla vita". Che cosa resta della nostra persona quando non rimane più niente? Resta l'amore, dato e ricevuto.
    Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato. Sei passi di un percorso, dove la sostanza della vita ha nome amore, forma dell'uomo, forma di Dio, forma del vivere. Sei passi per incamminarci verso il Regno, la terra come Dio la sogna. E per intuire tratti nuovi del volto di Dio, così belli da incantarmi ogni volta di nuovo.
    Prima di tutto Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini da arrivare fino a identificarsi con loro: l'avete fatto a me. Il povero è come Dio! Corpo di Dio, carne di Dio sono i piccoli. Quando tocchi un povero è Lui che tocchi.
    Poi emerge l'argomento attorno al quale si tesse l'ultima rivelazione: il bene, fatto o non fatto. Nella memoria di Dio non c'è spazio per i nostri peccati, ma solo per i gesti di bontà e per le lacrime. Perché il male non è rivelatore, mai, né di Dio né dell'uomo. È solo il bene che dice la verità di una persona.
    Per Dio il buon grano è più importante e più vero della zizzania, la luce vale più del buio, il bene pesa più del male.
    Dio non spreca né la nostra storia né tantomeno la sua eternità facendo il guardiano dei peccati o delle ombre. Al contrario, per lui non va perduto uno solo dei più piccoli gesti buoni, non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, ma tutto questo circola nelle vene del mondo come una energia di vita, adesso e per l'eternità.
    Poi dirà agli altri: Via, lontano da me... tutto quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me.
    Gli allontanati da Dio che male hanno commesso? Non quello di aggiungere male a male, il loro peccato è il più grave, è l'omissione: non hanno fatto il bene, non hanno dato nulla alla vita.
    Non basta giustificarsi dicendo: io non ho mai fatto del male a nessuno. Perché si fa del male anche con il silenzio, si uccide anche con lo stare alla finestra. Non impegnarsi per il bene comune, restando a guardare, è già farsi complici del male comune, della corruzione, delle mafie, è la "globalizzazione dell'indifferenza" (papa Francesco).
    Ciò che accade nell'ultimo giorno mostra che la vera alternativa non è tra chi frequenta le chiese e chi non ci va, ma tra chi si ferma accanto all'uomo bastonato e a terra, e chi invece tira dritto; tra chi spezza il pane e chi si gira dall'altra parte, e passa oltre. Ma oltre l'uomo non c'è nulla, tantomeno il Regno di Dio.

  • 19 Novembre 2017: XXXIII DOmenica del Tempo Ordinario

    XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

    Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matte 25,14-30

    Anno A

     

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. [...]

     

    Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli e dei talenti. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l'estate feconda di frutti.
    Come sovente nelle parabole, un padrone, che è Dio, consegna qualcosa, affida un compito, ed esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l'uso, e tanta libertà. Una sola regola fondamentale, quella data ad Adamo: coltiva e custodisci, ama e moltiplica la vita.
    La parabola dei talenti è l'esortazione pressante ad avere più paura di restare inerti e immobili, come il terzo servo, che di sbagliare (Evangelii gaudium 49); la paura ci rende perdenti nella vita: quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per il timore di finire sconfitti!
    La pedagogia del Vangelo ci accompagna invece a compiere tre passi fondamentali per l'umana crescita: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. Soprattutto da quella che è la madre di tutte le paure, cioè la paura di Dio.
    Se leggiamo con attenzione il seguito della parabola, scopriamo che ci viene rivelato che Dio non è esattore delle tasse, un contabile che rivuole indietro i suoi talenti con gli interessi.
    Dice infatti: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». Ciò che i servi hanno realizzato non solo rimane a loro, ma in più viene moltiplicato. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: e questo accrescimento, questo incremento di vita è esattamente la bella notizia. Questa spirale d'amore che si espande è l'energia segreta di tutto ciò che vive, e che ha la sua sorgente nel cuore buono di Dio. Tutto ci è dato come addizione di vita.
    Nessuna tirannia, nessun capitalismo della quantità: infatti colui che consegna dieci talenti non è più bravo di quello che ne riporta quattro. Non c'è una cifra ideale da raggiungere: c'è da camminare con fedeltà a te stesso, a ciò che hai ricevuto, a ciò che sai fare, là dove la vita ti ha messo, fedele alla tua verità, senza maschere e paure. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative.
    Dietro l'immagine dei talenti con ci sono soltanto i doni di intelligenza, di cuore, di carattere, le mie capacità. C'è madre terra, e tutte le creature messe sulla mia strada sono un dono del cielo per me. Ognuno è talento di Dio per gli altri.
    Magnifica suona la nuova formula del matrimonio: «Io accolgo te, come mio talento, come il regalo più bello che Dio mi ha fatto». Lo può dire lo sposo alla sposa, l'amico all'amico: Sei tu il mio talento! E il mio impegno sarà prendermi cura di te, aiutarti a fiorire nel tempo e nell'eterno.
    «L'essenza dell'amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l'altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il meglio di ciò che può diventare» (R.M. Rilke)

  • 12 Novembre 2017- XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Letture: Sapienza 6,12-16; Salmo 62; 1 Tessalonicesi 4,13-18; Matteo 25,1-13

    Anno A

     

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: "Ecco lo sposo! Andategli incontro!". (...)


    Una parabola difficile, che si chiude con un esito duro («non vi conosco»), piena di incongruenze che sembrano voler oscurare l'atmosfera gioiosa di quella festa nuziale. Eppure è bello questo racconto, mi piace sentire che il Regno è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po' di luce. Di quasi niente. Che il Regno è simile a dieci piccole luci nella notte, a gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare il buio e il ritardo del sogno; e che ha l'attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, uno sposo, un po' d'amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci crede.
    Ma qui cominciano i problemi. Tutti i protagonisti della parabola fanno brutta figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato che mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte che non hanno pensato a un po' d'olio di riserva; le sagge che si rifiutano di condividere; e quello che chiude la porta della casa in festa, cosa che è contro l'usanza, perché tutto il paese partecipava all'evento delle nozze... Gesù usa tutte le incongruenze per provocare e rendere attento l'uditorio.
    Il punto di svolta del racconto è un grido. Che rivela non tanto la mancata vigilanza (l'addormentarsi di tutte, sagge e stolte, tutte ugualmente stanche) ma lo spegnersi delle torce: Dateci un po' del vostro olio perché le nostre lampade si spengono... La risposta è dura: no, perché non venga a mancare a noi e a voi. Andate a comprarlo.
    Matteo non spiega che cosa significhi l'olio. Possiamo immaginare che abbia a che fare con la luce e col fuoco: qualcosa come una passione ardente, che ci faccia vivere accesi e luminosi. Qualcosa però che non può essere né prestato, né diviso. Illuminante a questo proposito è una espressione di Gesù: «risplenda la vostra luce davanti agli uomini e vedano le vostre opere buone» (Mt 5,16). Forse l'olio che dà luce sono le opere buone, quelle che comunicano vita agli altri. Perché o noi portiamo calore e luce a qualcuno, o non siamo. «Signore, Signore, aprici!». Manca d'olio chi ha solo parole: «Signore, Signore...» (Mt 7,21), chi dice e non fa.
    Ma il perno attorno cui ruota la parabola è quella voce nel buio della mezzanotte, capace di risvegliare la vita. Io non sono la forza della mia volontà, non sono la mia resistenza al sonno, io ho tanta forza quanta ne ha quella Voce, che, anche se tarda, di certo verrà; che ridesta la vita da tutti gli sconforti, che mi consola dicendo che di me non è stanca, che disegna un mondo colmo di incontri e di luci. A me basterà avere un cuore che ascolta e ravvivarlo, come fosse una lampada, e uscire incontro a chi mi porta un abbraccio.

  • I 100 anni di Lucietta

     

     Il 31 ottobre è stato il compleanno della socia dell'AC più longeva della nostra Diocesi Santa Di Massimo, conosciuta da tutti come Lucietta, che ha compiuto 100 anni...

  • 5 Novembre 2017: XXXI Domenica del Tempo Ordinario

    XXXI Domenica del Tempo Ordinario 

    Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; 1 Tessalonicési 7b-9.13; Matteo 23,1-12

    Anno A

     

    In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. (...) Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».

     

    Il Vangelo di questa domenica brucia le labbra di tutti coloro “che dicono e non fanno”, magari credenti, ma non credibili. Esame duro quello della Parola di Dio, e che coinvolge tutti: infatti nessuno può dirsi esente dall'incoerenza tra il dire e il fare. Che il Vangelo sia un progetto troppo esigente, perfino inarrivabile? Che si tratti di un'utopia, di inviti “impossibil”, come ad esempio: «Siate perfetti come il Padre» (Mt 5,48)? Ma Gesù conosce bene quanto sono radicalmente deboli i suoi fratelli, sa la nostra fatica. E nel Vangelo vediamo che si è sempre mostrato premuroso verso la debolezza, come fa il vasaio che, se il vaso non è riuscito bene, non butta via l'argilla, ma la rimette sul tornio e la riplasma e la lavora di nuovo. Sempre premuroso come il pastore che si carica sulle spalle la pecora che si era perduta, per alleggerire la sua fatica e il ritorno sia facile. Sempre attento alle fragilità, come al pozzo di Sicar quando offre acqua viva alla samaritana dai molti amori e dalla grande sete. Gesù non si scaglia mai contro la debolezza dei piccoli, ma contro l'ipocrisia dei pii e dei potenti, quelli che redigono leggi sempre più severe per gli altri, mentre loro non le toccano neppure con un dito. Anzi, più sono inflessibili e rigidi con gli altri, più si sentono fedeli e giusti: «Diffida dell'uomo rigido, è un traditore» (W. Shakespeare). Gesù non rimprovera la fatica di chi non riesce a vivere in pienezza il sogno evangelico, ma l'ipocrisia di chi neppure si avvia verso l'ideale, di chi neppure comincia un cammino, e tuttavia vuole apparire giusto. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma per essere incamminati; non per essere perfetti ma per iniziare percorsi. Se l'ipocrisia è il primo peccato, il secondo è la vanità: «tutto fanno per essere ammirati dalla gente», vivono per l'immagine, recitano. E il terzo errore è l'amore del potere. A questo oppone la sua rivoluzione: «non chiamate nessuno “maestro” o “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre, quello del cielo, e voi siete tutti fratelli». Ed è già un primo scossone inferto alle nostre relazioni asimmetriche. Ma la rivoluzione di Gesù non si ferma qui, a un modello di uguaglianza sociale, prosegue con un secondo capovolgimento: il più grande tra voi sia vostro servo. Servo è la più sorprendente definizione che Gesù ha dato di se stesso: Io sono in mezzo a voi come colui che serve. Servire vuol dire vivere «a partire da me, ma non per me», secondo la bella espressione di Martin Buber. Ci sono nella vita tre verbi mortiferi, maledetti: avere, salire, comandare. Ad essi Gesù oppone tre verbi benedetti: dare, scendere, servire. Se fai così sei felice.

  • 27 Novembre 2016: I Domenica di Avvento

    I Domenica di Avvento

    Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24, 37-44

    Anno A

     

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».

     

    Inizia il tempo dell'Avvento, quando la ricerca di Dio si muta in attesa di Dio. Di un Dio che ha sempre da nascere, sempre incamminato e sempre straniero in un mondo e un cuore distratti. La distrazione, appunto, da cui deriva la superficialità «il vizio supremo della nostra epoca» (R. Panikkar). «Come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla; mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito e non si accorsero di nulla». È possibile vivere così, da utenti della vita e non da viventi, senza sogni e senza mistero.
    È possibile vivere "senza accorgersi di nulla", di chi ti sfiora nella tua casa, di chi ti rivolge la parola, di cento naufraghi a Lampedusa o del povero alla porta.
    Senza vedere questo pianeta avvelenato e umiliato e la casa comune depredata dai nostri stili di vita insostenibili. Si può vivere senza volti: volti di popoli in guerra; volti di donne violate, comprate, vendute; di anziani in cerca di una carezza e di considerazione; di lavoratori precari, derubati del loro futuro.
    Per accorgersi è necessario fermarsi, in questa corsa, in questa furia di vivere che ci ha preso tutti. E poi inginocchiarsi, ascoltare come bambini e guardare come innamorati: allora ti accorgi della sofferenza che preme, della mano tesa, degli occhi che ti cercano e delle lacrime silenziose che vi tremano. E dei mille doni che i giorni recano, delle forze di bontà e di bellezza all'opera in ogni essere.
    L'altro nome dell'Avvento è vivere con attenzione. Un termine che non indica uno stato d'animo ma un movimento, un "tendere-a", uscendo da sé stessi. Tempo di strade è l'avvento, quando il nome di Dio è "Colui-che-viene", che cammina a piedi, senza clamore, nella polvere delle nostre strade, sui passi dei poveri e dei migranti, camminatore dei secoli e dei giorni. E servono grandi occhi.
    «Due uomini saranno nel campo, due donne macineranno alla mola, uno sarà preso e uno lasciato»: non sono parole riferite alla fine del mondo, alla morte a caso, ma al senso ultimo delle cose, quello più profondo e definitivo. Sui campi della vita uno vive in modo adulto, uno infantile. Uno vive sull'orlo dell'infinito, un altro solo dentro il circuito breve della sua pelle e dei suoi bisogni. Uno vive per prendere e avere, uno invece è generoso con gli altri di pane e di amore. Tra questi due uno solo è pronto all'incontro con il Signore. Uno solo sta sulla soglia e veglia sui germogli che nascono in lui, attorno a lui, nella storia grande, nella piccola cronaca, mentre l'altro non si accorge di nulla. Uno solo sentirà le onde dell'infinito che vengono ad infrangersi sul promontorio della sua vita e una mano che bussa alla porta, come un appello a salpare.
    (

  • Festa Vicariale 26 Novembre 2016

  • 20 Novembre 2016: XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    Anno C

    Letture: 2 Samuele 5,1-3; Salmo 121; Colossesi 1,12-20; Luca 23,35-43

     

    In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

     

    Se sei il Cristo, salva te stesso! Sono scandalizzati gli uomini religiosi: che Dio è questo che lascia morire il suo Messia?

    Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: se sei il re, usa la forza! Salvati. C'è forse qualcosa che vale più della vita? Ebbene sì, risponde la narrazione della Croce, qualcosa vale di più, l'amore vale più della vita. E appare un re che muore ostinatamente amando; giustiziato, ma non vinto; che noi possiamo rifiutare, ma che non ci rifiuterà mai. E la risurrezione è il sigillo che un amore così non andrà mai perduto.

    Un malfattore appeso alla croce gli chiede di non essere dimenticato e lui lo prende con sé. In quel bandito raggiunge tutti noi, consacrando – in un malfattore – la dignità di ogni persona umana: nella sua decadenza, nel suo limite più basso, l'uomo è sempre amabile per Dio. Proprio di Dio è amare perfino l'inamabile. Non ha meriti da vantare il ladro. Ma Dio non guarda al peccato o al merito, il suo sguardo si posa sulla sofferenza e sul bisogno, come un padre o una madre guardano solo al dolore e alle necessità del figlio.

    Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. E Gesù non solo si ricorda, fa molto di più: lo porta con sé, se lo carica sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta, lo riporta a casa: sarai con me! E mentre la logica della nostra storia sembra avanzare per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio è la terra nuova che avanza per inclusioni, per abbracci, per accoglienza.

    Ricordati di me prega il peccatore, sarai con me risponde l'amore. Sintesi estrema di tutte le possibili preghiere.
    Ricordati di me, prega la paura, sarai con me, risponde l'amore. Non solo il ricordo, ma l'abbraccio che stringe e unisce e non lascia cadere mai: con me, per sempre. Le ultime parole di Cristo sulla croce sono tre parole regali, tre editti imperiali: oggi-con me-paradiso.

    Oggi: adesso, subito; ecco l'amore che ha sempre fretta; ecco l'istante che si apre sull'eterno, e l'eterno che si insinua nell'istante.

    Con me: mentre la nostra storia di conflitti si chiude in muri, frontiere e respingimenti, il Regno di Dio germoglia in condivisioni e accoglimenti.

    Nel paradiso: quel luogo che brucia gli occhi del desiderio, quel luogo immenso e felice che «solo amore e luce ha per confine».
    E se il primo che entra in paradiso è quest'uomo dalla vita sbagliata, allora non c'è nulla e nessuno di definitivamente perduto, nessuno è senza speranza. Le braccia del re-crocifisso resteranno spalancate per sempre, per tutti quelli che riconoscono Gesù come compagno d'amore e di pena, qualunque sia il loro passato: è questa la Buona Notizia di Gesù Cristo.

     

  • CHIUSURA DELL'ANNO GIUBILARE IN DIOCESI

     

    CHIUSURA ANNO GIUBILARE STRAODINARIO DELLA MISERICORDIA

     

    Domenica 13 novembre 2016 in conformità alle disposizioni della Bolla "Misericordiae vultus" in tutte le Chiese locali si chiuderà l'Anno Giubilare Straordinario della Misericordia.

    Nella nostra Basilica Cattedrale, il Vescovo chiuderà la Porta Santa con apposito Rito mentre nei Vicariati Territoriali si celebrerà una Santa Messa di Ringraziamento, secondo le seguenti indicazioni.

     

    Ad Albano: Chiusura Porta Santa

    I presbiteri e i diaconi del Vicariato Territoriale insieme al Popolo di Dio si raduneranno presso il Sagrato del Santuario Diocesano di S. Maria della Rotonda.

     

    Alle ore 17.30 il Vescovo insieme ai Concelebranti daranno inizio al Sacro Rito.

     

    Dopo la Statio, in processione ci si recherà alla Porta Santa della Cattedrale, dove, dopo averne chiuso i Battenti, il Vescovo celebrerà la Santa Messa conclusiva dell'Anno della Misericordia.

  • 13 Novembre 2016: XXXIII Domenica delTempo Ordinario

    XXXIII Domenica delTempo Ordinario 

    Letture: Malachia 3,19-20; Salmo 97; 2 Tessalonicesi 3,7-12; Luca 21,5-19

    Anno C

     

    In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». (...)

     

    Il Vangelo ci guida lungo il crinale della storia: da un lato il versante oscuro della violenza, il cuore di tenebra che distrugge; dall'altro il versante della tenerezza che salva: neppure un capello del vostro capo andrà perduto.
    Il Vangelo non anticipa le cose ultime, svela il senso ultimo delle cose. Dopo ogni crisi annuncia un punto di rottura, un tornante che svolta verso orizzonti nuovi, che apre una breccia di speranza. Verranno guerre e attentati, rivoluzioni e disinganni brucianti, ansie e paure, ma voi alzate il capo, voi risollevatevi.
    Ma voi... è bellissimo questo «ma»: una disgiunzione, una resistenza a ciò che sembra vincente oggi nel mondo. Ma voi alzate il capo: agite, non rassegnatevi, non omologatevi, non arrendetevi. Il Vangelo convoca all'impegno, al tenace, umile, quotidiano lavoro dal basso che si prende cura della terra e delle sue ferite, degli uomini e delle loro lacrime, scegliendo sempre l'umano contro il disumano (Turoldo).
    È la beatitudine degli oppositori: loro sanno che il capo del filo rosso della storia è saldo nelle mani di Dio. È la beatitudine nascosta dell'opposizione: nel mondo sembrano vincere i più violenti, i più ricchi, i più crudeli, ma con Dio c'è sempre un dopo. Beati gli oppositori: i discepoli non sono né ottimisti né pessimisti, sono quelli che sanno custodire e coltivare speranza. «Mentre il creato ascende... / tutto è doglia di parto / quanto morir perché la vita nasca» (Clemente Rebora).
    E quand'anche la violenza apparisse signora e padrona della storia, voi rialzatevi, risollevatevi, perché nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; espressione straordinaria ribadita da Matteo 10,30 – i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate paura. Uomo e natura possono sprigionare tutto il loro potenziale distruttivo, eppure non possono nulla contro l'amore. Davanti alla tenerezza di Dio sono impotenti. Nel caos della storia, il suo sguardo è fisso su di me. Lui è il custode innamorato d'ogni mio più piccolo frammento. La visione apocalittica del Vangelo è la rivelazione che il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla forza e sulla violenza, già comincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. La violenza si autodistruggerà. Ciò che deve restare inciso negli occhi del cuore è l'ultima riga del vangelo: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, liberi, coraggiosi: così il Vangelo vede i discepoli di Gesù. Sollevate il capo, e guardate lontano, perché la realtà non è solo questo che si vede: c'è un Liberatore, il suo Regno viene, verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme.

  • 6 Novembre 2016: XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    XXXII Domenica del Tempo Ordinario 

    Letture: 2 Maccabei 7,1-2.9-14; Salmo 16; 2 Tessalonicesi 2,16-3,5; Luca 20,27-38

    Anno C

     

    In quel tempo, disse Gesù ad alcuni sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: "Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe". Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

     

    I sadducei si cimentano in un apologo paradossale, quello di una donna sette volte vedova e mai madre, e lo sottopongono a Gesù come caricatura della sua fede nella risurrezione. Lo sappiamo: non è facile credere nella vita eterna. Forse perché la immaginiamo come durata indefinita, anziché come intensità e profondità, come infinita scoperta di cosa significhi amare con il cuore stesso di Dio.
    L'unica piccola eternità in cui i sadducei credono è la sopravvivenza del patrimonio genetico della famiglia, così importante da giustificare il passaggio di quella donna di mano in mano, come un oggetto: «si prenda la vedova... Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette».
    Il loro linguaggio non è sfiorato neppure da un'ombra di amore, ma riduce la carne dolorante e luminosa della vita a uno strumento, una cosa da adoperare per i propri fini.
    Gesù non ci sta, e alla loro domanda banale (di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna?) contrappone un intero mondo nuovo: Quelli che risorgono non prendono né moglie né marito. Gesù non dice che finiranno gli affetti e il lavoro gioioso del cuore. Anzi, l'unica cosa che rimane per sempre, ciò che rimane quando non rimane più nulla, è l'amore (1 Cor 13,8).
    I risorti non prendono moglie o marito, e tuttavia vivono la gioia, umanissima e immortale, di dare e ricevere amore: su questo si fonda la felicità di questa e di ogni vita. Perché amare è la pienezza dell'uomo e di Dio. E ciò che vince la morte non è la vita, è l'amore.
    E finalmente nell'ultimo giorno, a noi che abbiamo fatto tanta fatica per imparare ad amare, sarà dato di amare con il cuore stesso di Dio.
    I risorti saranno come angeli. Ma che cosa sono gli angeli? Le creature un po' evanescenti, incorporee e asessuate del nostro immaginario romantico?
    O non piuttosto, biblicamente, annunciatori di Dio (Gabriele), forza di Dio (Michele), medicina di Dio (Raffaele)? Occhi che vedono Dio faccia a faccia (Mt 18,10), presenti alla Presenza?
    Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi. In questa preposizione «di» ripetuta 5 volte è racchiuso il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità.
    Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che dice: Dio appartiene a loro, loro a Dio.
    Così totale è il legame, che il Signore non può pronunciare il proprio nome senza pronunciare anche quello di coloro che ama. Il Dio forte al punto di inondare di vita anche le vie della morte ha così bisogno dei suoi figli da ritenerli parte fondamentale di sé stesso. Questo Dio di uomini vive solo se io e tu vivremo, per sempre, con Lui.

  • Corso Biblico

  • Lunedì 7 Dicembre, ore 18.00 in Cattedrale

    locandina ordinazione 7 dicembre Copia

               Don Kenneth celebrerà la sua prima Messa nella

                               nostra comunità parrocchiale                    

                             Martedì 8 Dicembre alle ore 11,30

  • Per ricordare i nostri cari

    Lunedì 2 Novembre, COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI, le Sante Messe seguono l'orario feriale:

     

    ore 8,30 - 17,30

     

    Alle ore 15,30 presso il Cimitero di Albano, Santa Messa concelebrata dai sacerdoti del Vicariato di Albano, con la presenza delle autorità cittadine

  • Le Giornate Eucaristiche

  • Festa di apertura Anno Pastorale

  • Non prendere impegni per Domenica 23 Novembre!

    DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014

     

    Celebrazione di chiusura della Visita Pastorale

    Il vescovo mons. Marcello Semeraro presiederà la Santa Messa in occasione della chiusura della Visita Pastorale il 23 novembre 2014 alle ore 18.00 nella Basilica Cattedrale di San Pancrazio in Albano.

    In occasione di questo evento la S. Messa delle ore 17.30 in parrocchia  è sospesa

     

     

    25° Anniversario Ordinazione Sacerdotale di don Mauro Verani, già vice parroco nella nostra parrocchia negli anni '90

    La Comunità Parrocchiale partecipa con infinita gioia e profondo entusiasmo al XXV Anniversario della tua Ordinazione Sacerdotale.Possa tu essere sempre illuminato dallo Spirito Santo per  proclamare degnamente il Vangelo.In allegato la testimonianza di don Mauro pubblicata sul libro "Il Trentennio della costruzione della Chiesa nella storia di oltre quarant'anni di Attività Pastorale" (2001)

  • Calendario settimanale dal 15 al 21 Dicembre

    Lunedi' 15 Dicembre

    ore 18.00: Lectio divina

    ore 19.45: Cammino di Preparazione Cresima Adulti

     

    Martedi' 16 Dicembre

    ore 17.00: S. Rosario, Novena di Natale e S. Messa

  • In vista del Natale...

  • L'Azione Cattolica di Albano

    Gruppo Giovani di Azione Cattolica – Vicariato di Albano

    "Stai al passo!"

    Silenzio in sala, il cuore batte più forte, luci basse, ecco che parte, 1, 2, 3, 4... quattro quarti o tre ottavi, qualunque sia il tempo e il ritmo ciò che conta per non perdere il passo è cercare la sintonia con il partner e anche con le altre coppie in pista!

    Immagina tutte le emozioni in questa pista che può rappresentare lo scenario della tua vita. Avanza la paura di sbagliare, il ritmo si fa più incalzante. Poi aumenta la fiducia nel partner e i tuoi passi si fanno più sicuri.

    E' il ritmo della vita, è il tuo passo a due con il Signore.

    L'Azione Cattolica ti propone questo esercizio di fiducia nei confronti del Signore, per imparare a conoscerlo e a seguirlo, condividendo insieme questo ballo gioioso, sorprendente, nuovo e vivo. Stai al passo! 

    Contatti:

    Marta Gavi 339 8174939

    Daniele Conciatori 340 4987698

    Mario Chiarlitti 393 3097425

  • Un doveroso ringraziamento

  • 24 Novembre - Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

    Commento al Vangelo della XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

    Lc  23, 35 - 43   Anno C

     

    Questa domenica è una domenica speciale, per due motivi fondamentali. E' l'ultima domenica dell'anno liturgico dedicata a Gesù Re dell'Universo ed è la domenica conclusiva dell'Anno della fede, indetto da Papa Benedetto XVI (attuale Papa emerito) ed aperto ufficialmente il 12 ottobre dello scorso anno, che si conclude oggi con la solenne celebrazione eucaristica in San Pietro, presieduta da Papa Francesco. Per l'uno e l'altro motivo questa domenica ci coinvolge personalmente e ecclesialmente su un concetto essenziale della fede: Cristo, Re dell'Universo, il Salvatore e il Redentore dell'uomo, l'alfa e l'omega, l'inizio e il termine di ogni cosa esistente nel tempo e nell'eternità.

    La domanda che i soldati e uno dei due malfattori inchiodati alla croce come Gesù rivolgono a Lui, con rabbia, sfidandolo, mettendolo alla prova e deridendolo pubblicamente, è chiara: "Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi e poi crederemo in Te". La salvezza che si attendono da Gesù Crocifisso, il Re dei Giudei appeso al più infamante dei patiboli, era quella fisica, dalla morte corporale, dal dolore.

    Gesù non salva da questa esperienza della croce né se stesso, né gli altri, in quanto è lì a fare la volontà del Padre e a portare a compimento l'opera della redenzione, paradossalmente, proprio attraverso la croce e il dolore più grande per un uomo. L'aveva chiesto al Padre nell'orto del Getsemani, quando vedendo davanti a se tutto il dramma della sofferenza, chiede, per tre volte, di liberarlo dall'atroce supplizio della morte in croce, dal calice amaro della passione. Ma la storia personale di questo singolare Re, non secondo i cliché del potere di ieri e di sempre, si conclude con il patibolo, pur essendo innocente, pur essendo, diversamente da altri Re della terra che nella storia hanno sperimentato la morte violenta, il Figlio di Dio, Colui che era passato nel mondo beneficando tutti, sanando e guarendo, nel corpo e nello spirito, le persone. Era il Re mite ed umile, nato da una famiglia povera, nato povero, vissuto povero, morto più povero che mai, addirittura appeso al legno della Croce. La regalità di Cristo è espressa in questo atto di amore supremo per l'uomo. Per questa umanità, Egli non disdegna di offrirsi sulla croce per noi, fino a versare l'ultima goccia del suo sangue innocente e immacolato per l'umanità. Egli è il Re dei Giudei e di tutti, come sintetizza l'iscrizione posta sul suo capo, per disposizione di Pilato. La sua signoria e regalità ingloba tutti gli uomini e tutte le religioni, tutti i credi e tutte le nazioni. Muore nella città santa, Gerusalemme, la città della pace e della riconciliazione, muore su un monte, il Calvario, e da questo singolare trono esercita la sua regalità con l'Amore, con la sofferenza, con il perdono, con la sete di giustizia che estinguerà con la sua morte, dicendo con una sintetica espressione dalla sua bocca "Tutto è compiuto".

    Un Re che non lascia in sospeso il suo programma politico e di governo, il suo progetto economico, il suo piano di risanamento e di rinascita della gente. Egli porta a compimento ogni cosa, perché in Lui c'è la linea di demarcazione chiara tra il bene e il male, tra la salvezza e la perdizione, come ricordiamo nella preghiera iniziale, la colletta, di questa celebrazione: "O Dio Padre, che ci hai chiamati a regnare con te nella giustizia e nell'amore, liberaci dal potere delle tenebre; fa' che camminiamo sulle orme del tuo Figlio, e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso".

    Gesù ci chiama a regnare con Lui con il potere e l'esercizio dell'amore, mettendo da parte ogni odio, violenza, ingiustizia, offesa, dittatura della mente e del cuore, lo strapotere di ogni forza devastante del Dio denaro e del godimento materiale. Egli ci invita a regnare con Lui dalla Croce, con la carità che si fa servizio e attenzione verso gli ultimi e i più bisognosi di questo pazzo mondo, folle al punto tale che non sa più differenziare il vero bene dal vero male.

    Gesù il Redentore, discendente della stirpe di Davide, unto e consacrato re non del solo popolo eletto ma di tutto l'universo, è stato scelto ed inviato dal Padre nel mondo per ridare vita vera e la felicità senza fine all'umanità immersa nel peccato e nelle tenebre, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della seconda lettura della liturgia odierna, tratto dalla sua lettera ai Colossesi.

    La missione di Cristo di redenzione del genere umano, si comprende alla luce dell'identità del Cristo stesso.

    Chi sei tu, Gesù, ci domandiamo oggi, come fecero tanti tuoi discepoli dubbiosi che pure ti avevano conosciuto, seguito ed erano presenti ai piedi del Calvario?

    Se tu sei il Cristo, facci scendere dalle nostre croci e noi crederemo in te.

    Per aiutarci a capire quale sia l'identità del Cristo, Paolo fissa in una delle pagine più belle e significative della sua Cristologia, la persona di Gesù. Questi è il Cristo in cui crediamo, che amiamo, che adoriamo, che aspettiamo nella gloria, che ci conforta nelle difficoltà, che ci prende per mano e ci risolleva dal fango, dalla melma del peccato, dalla miseria umana, ci libera dalle passioni ingannatrici del mondo ed estingue in noi ogni minima sete di odio e vendetta.

    Gesù Tu sei davvero il nostro Re, il Re di tutto e di tutti, il Re dell'universo.

    Signore Tu sei il nostro Re e inginocchiati davanti a Te, ti chiediamo perdono se spesso non Ti abbiamo riconosciuto come nostro Salvatore e non abbiamo scoperto il tuo volto crocifisso nei poveri di questa terra. Non ti abbiamo cercato nel volto luminoso delle persone sante e generose che ci hai fatto conoscere e messe sul nostro cammino di vita umana e cristiana. Signore, fa' che noi possiamo sperimentare la stessa gioia e consolazione del buon ladrone che con umiltà e cosciente della sua sorte finale, ti chiese: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». E tu rispondesti: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Facci vivere con Te, Signore, il Paradiso su questa terra e soprattutto nel tuo Regno di infinita luce e pace nella santa Gerusalemme.

  • Domenica 24 Novembre: Giornata del Seminario

    Per la nostra Diocesi è tradizione che la domenica di Cristo Re ( 24 novembre 2013) sia la Giornata del Seminario. Le collette delle messe di questa giornata saranno devolute secondo questa finalità.

     

    MESSAGGIO ALLA CHIESA DI ALBANO

    PER LA GIORNATA DEL SEMINARIO 2013

    Ogni ultima Domenica dell’anno liturgico, solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, celebriamo nella nostra Diocesi la Giornata per il Seminario. In questa stessa Domenica si dà inizio al quarto anno della Visita Pastorale, che ora sta impegnando direttamente i Vicariati territoriali di Anzio e di Nettuno. La data odierna è pure occasione per avviare ufficialmente la riflessione comune sul tema annuale: L’assemblea eucaristica domenicale. Questi tre temi, che convergono nella stessa circostanza, non sono affatto slegati fra loro. Hanno, anzi, un’intima connessione. L’assemblea domenicale, difatti, è la nostra convocazione attorno all’unico Corpo di Cristo, per diventare-essere-vivere la comunione di un solo corpo: la Chiesa! Non ci riuniamo per interessi comuni, ma per «chiamata» del Signore. Non ci autoconvochiamo, ma siamo chiamati per nome dal Signore. È il «Buon Pastore» che, come leggiamo nel vangelo secondo Giovanni, chiama le sue pecore, ciascuna per nome (10,3). Segno, poi, di questa chiamata del Signore è il Vescovo. Sia intesa così la sua presenza nella Visita Pastorale. Così io stesso ve l’ho presentata come preghiera: «anche nella visita del nostro Vescovo facci riconoscere la presenza di te, Buon Pastore». Ogni assemblea eucaristica domenicale, infine, nelle nostre comunità è presieduta dal sacerdote. «Non esiste Eucaristia senza Sacerdozio, come non esiste Sacerdozio senza Eucaristia», ripeteva Giovanni Paolo II. Nell’Eucaristia è depositato il dono della vita eterna, di quel «paradiso» promesso da Gesù non soltanto al «buon ladrone» dell’odierno racconto evangelico, ma a ciascuno di noi, se gli apriamo sinceramente il cuore.

     

    In questa Giornata, carissimi, il Vescovo vi domanda tre cose. Di pregare, anzitutto, per le vocazioni. È l’unica intenzione che Gesù ci ha ordinato: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,38). Di essere sensibili, in secondo luogo, al tema vocazionale e alla possibile scelta di vita come sacerdote. Da ultimo il Vescovo vi domanda un’offerta materiale per i bisogni del Seminario e dei seminaristi. In questo anno sono cinque i giovani, che per la loro formazione iniziale dimorano nel nostro Seminario Regionale Teologico che è in Anagni; altri quattro sono stati ordinati diaconi nello scorso mese di giugno; altri quattro seminaristi saranno ordinati anche loro diaconi nei prossimi mesi. La loro vocazione al ministero sacerdotale esprime la vitalità della nostra Chiesa di Albano. Sostenere la loro preparazione spirituale, intellettuale e pastorale è un impegno non soltanto loro, ma di tutti noi. È perciò che vi domando un – sia pur piccolo, ma in ogni caso significativo – contributo economico. Dio ama chi dona con gioia, scrive San Paolo (2Cor 9,7).

     

    Vi ringrazio per avere ascoltato questo mio Messaggio. Su quanti lo accoglieranno, invoco di cuore la benedizione del Signore.

     Dalla Sede di Albano, 24 novembre ’13

     

                                     Marcello Semeraro, vescovo

     

     

    TUTTI I SACERDOTI DIANO LETTURA DEL PRESENTE MESSAGGIO

    NELLE MESSE DOMENICALI DEL 24 NOVEMBRE 2013

     

  • 1 Dicembre: una giornata di solidarietà per le Filippine

     

    CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

    Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali

     

    Comunicato stampa

    Una giornata di solidarietà per le Filippine

     

    Domenica 1 dicembre

     

    "In questi giorni stiamo pregando e unendo le forze per aiutare i nostri fratelli e sorelle delle Filippine, colpiti dal tifone. Queste sono le vere battaglie da combattere. Per la vita! Mai per la morte!"

    Al termine dell’Udienza generale di mercoledì 13 novembre, Papa Francesco è così tornato a ricordare il disastro che ha colpito le Filippine, dopo che già domenica scorsa aveva invitato a "pregare e far giungere anche il nostro aiuto concreto".

    Raccogliendo l’accorato invito del Santo Padre, domenica 1 dicembre 2013 in tutte le chiese d’Italia si terrà una raccolta straordinaria, indetta dalla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana a sostegno delle popolazioni colpite. La Presidenza della CEI da subito ha disposto lo stanziamento di 3 milioni di euro dai fondi derivanti dall’otto per mille, mentre Caritas Italiana ha messo a disposizione 100 mila euro.

    Le offerte – specificando la causale "Emergenza Filippine" – possono essere inoltrate alla Caritas Italiana tramite:

    versamento su c/c postale numero 347013 intestato a: CARITAS ITALIANA, Via Aurelia 796 – 00165 Roma

    bonifico bancario:

    • Banca Popolare Etica 

    Via Parigi 17, Roma

    Codice IBAN: IT29 U050 1803 2000 0000 0011 113

     Codice BIC/SWIFT: CCRTIT2T84A

     

    •UniCredit

    Via Taranto 49, Roma

    Codice IBAN: IT88 U020 0805 2060 0001 1063 119

     Codice BIC/SWIFT : UNCRITM1707

     

    •Banca Prossima

     Piazza della Libertà 13, Roma

    Codice IBAN: IT06 A033 5901 6001 0000 0012 474

    Codice BIC/SWIFT: BCITITMX

     

    •Banco Posta – Viale Europa 175, Roma

     Codice IBAN: IT91 P076 0103 2000 0000 0347 013

    Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX

     

    Roma, 14 novembre 2013

     

     

  • Incontro Cavalieri

  • 17 Novembre - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

    Lc 21, 5 - 19  Anno C

     

    Con il suo linguaggio a­pocalittico il brano non racconta la fine del mondo, ma il significato, il mistero del mondo. Vange­lo dell'oggi ma anche del do­mani, del domani che si pre­para nell'oggi. Se lo leggiamo attentamente notiamo che ad ogni descri­zione di dolore, segue un punto di rottura dove tutto cambia, un tornante che apre l'orizzonte, la breccia della speranza: non è la fine, alza­te il capo, la vostra liberazio­ne è vicina.

    Al di là di profeti ingannato­ri, anche se l'odio sarà do­vunque, ecco quella espres­sione struggente: Ma nem­meno un capello del vostro ca­po andrà perduto; ribadita da Matteo 10,30: i vostri capelli sono tutti contati, non abbia­te paura. Nel caos della storia lo sguardo del Signore è fisso su di me, non giudice che in­combe, ma custode innamo­rato di ogni mio frammento. Il vangelo ci conduce sul cri­nale della storia: da un lato il versante oscuro della violen­za, il cuore di tenebra che di­strugge; dall'altro il versante della tenerezza che salva. In questa lotta contro il male, contro la potenza mortifera e omicida presente nella storia e nella natura, " con la vostra perseveranza salverete la vo­stra vita". La vita - l'umano in noi e negli altri - si salva con la perseveranza. Non nel di­simpegno, nel chiamarsi fuo­ri, ma nel tenace, umile, quo­tidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue fe­rite, degli uomini e delle loro lacrime. Scegliendo sempre l'umano contro il disumano (Turoldo).

    Perseveranza vuol dire: non mi arrendo; nel mondo sem­brano vincere i più violenti, i più crudeli, ma io non mi ar­rendo.

    Anche quando tutto il lottare contro il male sembra senza esito, io non mi arren­do. Perché so che il filo rosso della storia è saldo nelle ma­ni di Dio. Perché il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla for­za e sulla violenza, già co­mincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. La violenza si autodistruggerà (M. Marcolini).

    Il Vangelo si chiude con un'ul­tima riga profezia di speran­za: risollevatevi, alzate il ca­po, la vostra liberazione è vi­cina.

    In piedi, a testa alta, liberi: co­sì vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che si vede: viene un Liberatore, un Dio esperto di vita.

    Sulla terra intera e sul picco­lo campo dove io vivo si scaricano ogni giorno ro­vesci di violenza, cadono piogge corrosive di menzo­gna e corruzione. Che cosa posso fare? Usare la tattica del contadino. Rispondere alla grandine piantando nuovi frutteti, per ogni rac­colto di oggi perduto impe­gnarmi a prepararne uno nuovo per domani. Semi­nare, piantare, attendere, perseverare vegliando su o­gni germoglio della vita che nasce.

  • 10 Novembre - XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Lc 20, 27 - 38  Anno C

     

    La storiella paradossale di una donna, sette volte ve­dova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l'hanno sposata sarà moglie quella donna nella vita eterna?

    Per loro la sola eternità possibile sta nella generazione di figli, nella discenden­za. Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigio­nare in questioni di corto respiro, rompe l'accerchia­mento, dilata l'orizzonte e «rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell'uomo ma l'eternità stes­sa di Dio» (M. Marcolini).

    Quelli che risorgono non prendono moglie né marito.

    Fac­ciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affet­ti. Quelli che risorgono non si sposano, ma danno e ri­cevono amore ancora, finalmente capaci di amare bene, per sempre. Perché amare è la pienezza dell'uomo e di Dio. Perché ciò che nel mondo è valore non sarà mai di­strutto. Ogni amore vero si aggiungerà agli altri nostri a­mori, senza gelosie e senza esclusioni, portando non li­miti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità.

    Saranno come angeli.

    Gesù adopera l'immagine degli an­geli per indicare l'accesso ad una realtà di faccia a faccia con Dio, non per asserire che gli uomini diventeranno an­geli, creature incorporee e asessuate. No, perché la ri­surrezione della carne rimane un tema cruciale della no­stra fede, il Risorto dirà: non sono uno spirito, un fanta­sma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,36). La risurrezione non cancella il corpo, non cancella l'u­manità, non cancella gli affetti. Dio non fa morire nulla dell'uomo. Lo trasforma. L'eternità non è durata, ma in­tensità; non è pallida ripetizione infinita, ma scoperta «di ciò che occhio non vide mai, né orecchio udì mai, né mai era entrato in cuore d'uomo...» (1Cor 2,9).

    Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi.

    In questo «di» ripetuto 5 volte è racchiuso il motivo ultimo della risurrezione, il segre­to dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reci­proco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appar­tengono di Dio. Così totale è il legame, che il Signore fa sì che il nome di quanti ama diventi parte del suo stesso nome. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici par­te integrante di sé. Legando la sua eternità alla nostra, mo­stra che ciò che vince la morte non è la vita, ma l'amore. Il Dio di Isacco, di Abramo, di Giacobbe, il Dio che è mio e tuo, vive solo se Isacco e Abramo sono vivi, solo se tu e io vivremo. La nostra risurrezione soltanto farà di Dio il Padre per sempre.


  • Pellegrinaggio a Roma

    Si informano i fedeli che il Pellegrinaggio a Roma previsto per sabato 23 novembre in occasione della chiusura dell' Anno della Fede è stato annullato

  • Tutti all' Oratorio!

  • Avvisi per i catechisti ed educatori

    Per vedere il materiale, clicca qui.

  • Appuntamenti settimanali dal 17 al 23 Febbraio

     

    Martedì 18 Febbraio17.00 - 18.30  Gruppo Giovanissimi  A.

    Mercoledì 19 Febbraio: 16.30 - 18.00 II anno catechesi Comunione

                                              

  • Video Inizio Anno Pastorale 2013

    http://www.youtube.com/watch?v=8VPEkN-jkTg&feature=youtu.be

  • 3 Novembre- XXXI Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario

    Lc 19, 1-10  Anno C

     

    "Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand'ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua'. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: ‘E' entrato in casa di un peccatore!'"

    Tutti mormoravano: chiunque volesse dirsi un buon ebreo evitava con cura ogni contatto con i disprezzati pubblicani, considerati pubblici peccatori in quanto oppressori del loro popolo, perché avevano accettato di fare gli esattori delle tasse per conto degli odiati Romani occupanti, spesso poi esigendo più del dovuto per incamerarlo a proprio vantaggio. Tutti li evitavano, ed ecco che invece addirittura un maestro nella fede si autoinvitava a casa di uno di loro! Forse gli abitanti di Gerico non si sarebbero stupiti se avessero saputo che Gesù aveva scelto uno dei suoi dodici apostoli proprio tra i pubblicani (è Matteo, l'evangelista) e se avessero sentito la parabola di domenica scorsa, del fariseo e del pubblicano recatisi nel tempio a pregare. Non si sarebbero meravigliati, se avessero conosciuto come Gesù aveva trattato altri peccatori, quali la donna colta in flagrante adulterio, la samaritana dai cinque mariti, la prostituta che gli aveva lavato i piedi con le proprie lacrime. Non si sarebbero scandalizzati, se l'avessero sentito quando aveva detto chiaro: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori".

    Certo, l'atteggiamento di Gesù non va scambiato per tolleranza o indifferenza davanti al peccato. La sua è invece la sollecitudine del buon pastore, che va in cerca della pecorella smarrita per riportarla all'ovile, e quando vi riesce è lui il primo a rallegrarsi. Vi riesce, tornando al vangelo di oggi (Luca 19,1-10), con Zaccheo, il quale dimostra di capire bene il senso del sorprendente gesto di Gesù: riconosce di essere un peccatore, e corrisponde all'inattesa benevolenza del maestro dichiarando: "Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto".

    Il comportamento di Zaccheo risulta commendevole, per vari motivi. Anzitutto egli restituisce il maltolto, e con gli interessi! Non basta infatti pentirsi del male commesso; un pentimento sincero comporta anche la riparazione, per quanto possibile, e non solo in fatto di furti o imbrogli; ad esempio, comporta il chiedere scusa a quanti avessimo deliberatamente offeso. In secondo luogo, egli dimostra attenzione verso i meno fortunati. Non sarà sempre necessario distribuire metà dei propri beni ai poveri; ma riconosciamolo: quante volte restiamo insensibili, davanti a chi potremmo facilmente soccorrere.

    Merita poi una sottolineatura il fatto che Zaccheo si sia lasciato incuriosire dalla persona di Gesù; non gli è bastato quello che gli avevano raccontato di lui: ha voluto accertarsi di persona., è andato a cercarlo. Somiglia in questo a un altro personaggio del vangelo, il nobile e colto Nicodemo, quello che è andato da Gesù di notte per chiedergli spiegazioni, e da allora è diventato un suo discepolo, uno dei pochi rimastigli fedeli sino al calvario. Zaccheo e Nicodemo: due uomini tra loro diversissimi, divenuti però entrambi un esempio per quanti invece si fanno bastare il "sentito dire", e così non sanno quello che perdono; un incontro con il divino Maestro, una adeguata conoscenza di lui, può davvero cambiare la vita. Dopo aver espresso i suoi propositi, il pubblicano di Gerico si è sentito rivolgere parole decisive: "Oggi per questa casa è venuta la salvezza". Conoscere da vicino Gesù potrà comportare che quelle parole valgano anche per noi.

     
  • XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

    Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

    Gv 18, 33-37

    Anno B 

    In questa ultima domenica dell’anno liturgico la Chiesa c’in­vita a celebrare Cristo Re dell’universo. La conclusione della storia sarà il regno definitivo ed eterno di Cristo. Egli era all’ini­zio con il Padre quando è stato creato il mondo, e sarà anche al­la fine per giudicare tutti gli uomini.

    Nell’episodio evangelico Gesù si trova in una situazione umi­liante - quella di accusato - davanti al potere romano. È stato ar­restato, legato, insultato, accusato, e ora i suoi nemici sperano di ottenerne la condanna al supplizio della croce. L’hanno presentato a Pilato come uno che aspira al potere politico, come il sedicen­te re dei giudei.

    Il procuratore romano fa la sua indagine e interroga Gesù: «Tu sei il re dei giudei?». Gesù non risponde subito, ma rivolge in­nanzitutto una domanda a Pilato: «Dici questo da te, oppure al­tri te l’hanno detto sul mio conto?». Pilato risponde: «Sono io for­se giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegna­to a me; che cosa hai fatto?». L’iniziativa del processo di Gesù non è stata presa da Pilato, ma dai capi degli ebrei, i quali gli han­no consegnato Gesù come un uomo pericoloso, un nemico del po­tere romano.

    Questa è una situazione molto strana, scandalosa, ma che si ri­pete spesso nella storia umana. Le persone molto generose, che s’impegnano per il bene degli altri, spesso vengono criticate e accusate; si cerca anche di condannarle, per impedirne l’azione, che disturba i potenti, i ricchi e quelli che vogliono mantenere i loro privilegi.

    Gesù poi risponde alla domanda di Pilato, affermando che il suo regno non è un regno politico: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».

    È chiaro che Gesù non ha nessuna ambizione politica. Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasmata dal miracolo, lo voleva prendere per farlo re, per rovesciare il potere romano in Palestina e stabilire così un nuovo regno politico, che sarebbe sta­to considerato come il regno di Dio. Ma Gesù sapeva che il regno di Dio è di tutt’altro genere, non può basarsi sulle armi e sulla vio­lenza. Perciò si è ritirato sul monte solo a pregare, lasciando la fol­la delusa. Ora, davanti a Pilato, fa notare che al Getsemani i suoi discepoli non hanno combattuto per impedire che fosse arrestato: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei».

    Nel racconto della passione vediamo che anche i discepoli avevano idee politiche e pensavano a un regno di Gesù sulla ter­ra instaurato grazie a un combattimento con le armi. Nel Getsemani Pietro aveva tirato fuori la sua spada e iniziato il combattimento, ma Gesù lo aveva fermato. Gesù non voleva essere difeso con le armi, ma voleva fare la volontà del Padre e stabilire il regno del Padre non per mezzo delle armi, ma per mezzo della più grande generosità, per mezzo del dono della propria vita. Il regno di Dio è un regno completamente diverso da quello terreno, politico.

    Sorpreso da ciò che dice Gesù, Pilato ne trae la conclusione: «Dunque tu sei re?». Un re di un altro tipo, ma comunque un re. Gesù risponde in modo affermativo: «Tu lo dici: io sono re».

    Il potere politico non è l’unico tipo di potere: c’è un potere mol­to più valido, che non si ottiene con mezzi umani. Gesù è venu­to per ricevere questo potere rendendo testimonianza alla verità. Dice a Pilato: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». Ovviamente qui egli si riferisce alla verità divina; non intende parlare di qualche verità scientifica, ma di una verità più profonda, quella di Dio: una verità che in realtà è la rivelazione dell’amore.

    La verità proclamata dal Nuovo Testamento è che Dio è amo­re (cf. 1Gv 4,8.16) e vuole stabilire nel mondo un regno di amo­re. Certamente Dio vuole stabilire nel mondo un regno di giusti­zia e di santità, ma prima di tutto un regno di amore. Chi è aper­to all’amore, ascolta questa testimonianza di Gesù e l’accoglie, ed entra così nel regno di Dio.

    In questa situazione umiliante davanti a Pilato Gesù manifesta la sua gloria: la gloria di amare sino all’estremo, dando la propria vita per le persone amate. Questa è la rivelazione del regno di Gesù.

    Questo regno della verità e dell’amore è un regno che si esten­de in continuazione e che alla fine costituirà un unico regno. I re­gni fondati sul potere delle armi sono fragili: dopo un certo tem­po, più o meno lungo, vengono rovesciati, e il loro posto viene pre­so con la forza da altri poteri politici, come possiamo constatare anche ai nostri giorni. Ma il potere di Gesù non può essere rove­sciato dalla forza delle armi, perché è un potere profondo, che ha le sue radici nel cuore delle persone e che pone chi lo accoglie in una meravigliosa condizione di pace e di pienezza.

     

     

     

  • La Parrocchia e il coraggio di dirsi Cristiani

    Sono tempi particolari, diciamolo pure. Una crescente indifferenza verso i valori del passato, quelli che ci hanno guidato fino ad oggi con sicurezza ed elevazione spirituale, sta dilagando, quasi una moda che ci porta avergognarci del nostro essere cristiani, partecipi del mistero della vita e del grande problema di Dio.La considerazione di ordine generale, ora espressa, è incanalabile anche in ambito più ristretto.

  • 50° anniversario di ordinazione sacerdotale

    29 GIUGNO 2006

    È sempre bello e denso di significato ricordare all’interno di una famiglia e, a maggior ragione, in una comunità, Ricorrenze e Date; ce ne dà esempio la Liturgia. Così si è creduto opportuno celebrare il 50° anniversario della Ordinazione Sacerdotale del nostro Parroco mons. Umberto Galeassi. Si è voluto procedere, con esplicita collaborazione del Consiglio Pastorale, bene animato dal segretario Pellegrino Ascione, dando a questa ricorrenza una impostazione vocazionale, tema, che è molto familiare in Parrocchia; siamo, infatti, ripetutamente invitati a pregare, ogni sabato prima della S. Messa vespertina, con il Rosario vocazionale perché, per la mediazione della Madonna, il Signore ci conceda qualche bella e seria vocazione al Sacerdozio e alla vita consacrata.

    Pertanto, in vista del 29 giugno, data ricorrente del 50°, si è svolto, nelle tre domeniche precedenti: l’11 18 e 25, un particolare tema vocazionale grazie alla collaborazione del carissimo D. Andrea De Matteis del Centro Diocesano e vicario cooperatore della Cattedrale; poi la sera del 28 giugno, raccolta e partecipata si è svolta l’adorazione al SS.mo Sacramento; vi hanno collaborato con preghiere, canti e riflessioni le Suore Apostoline con i nostri giovani. Davvero bella è stata questa preparazione, quale preludio alla celebrazione vespertina del 29 giugno alle ore 18,30 sul Sagrato della Chiesa. Vi ha presieduto il Card. Agostino Vallini e vi hanno partecipato S.Ecc. Mons. Marcello Semeraro, nostro Vescovo, S.Ecc. Mons. Paolo Gillet emerito Vescovo Ausiliare, il Rev.mo P. Giuseppe Zane, Vicario ad omnia e tanti Sacerdoti.

    Con i Sindaci di Albano, di Ariccia e altre rispettive autorità cittadine, civili e militari, ottima è stata la   partecipazione del popolo ferraiolino.

    Vada meritato plauso al “Coro” che sempre si fa onore, guidato dalle sorelle: prof.sse Francesca e Chiara Ascione, nonché al servizio di organizzazione e onore effettuato dai giovani: Simone Rapazzetti, Coletta Stefano, Riccardo Cametti, Luca Conciatori, Francesca Pagliaroli.

    Con loro sono da ricordare i “Cavalieri del Cuore Immacolato”, che, conla loro presenza e devozione, fanno onore alle funzioni religiose e il loro numero,sempre più crescente, denota il filiale amore della Comunità Parrocchiale alla Madonna. Un particolare “grazie” giunga alla pittrice Patrizia Coletta per aver riprodotto su tela l’immagine della Madonna, che noi veneriamo dal CuoreImmacolato, titolare della Parrocchia. È stato il “Quadro Ricordo” donato a Sua Eminenza il Cardinale Agostino Vallini a perenne memoria di questa  celebrazione, che ha impegnato ancora di più la nostra Comunità ad esprimerGli, con rinnovato affetto, gratitudine e riconoscenza.

     

     

     

  • Don Umberto è Monsignore


    È la prima Domenica di Settembre e S.E. l’Arcivescovo Mons. Agostino Vallini, già Vescovo di Albano, ma Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, è presente in Parrocchia per celebrare la Santa Messa delle ore 11,30 e, proprio all’inizio, dopo aver rivolto il saluto all’Assemblea, così si esprime:


    “Fratelli e sorelle, sarà per voi, oggi, una sorpresa vedere il Vescovo che viene a celebrare la Santa Messa. Per me è sempre un grande piacere ritornare qui al Cuore Immacolato della Vergine Maria. Oggi però, avevo un motivo particolare per essere presente anzi, per auto-invitami. Il motivo è questo, il Santo Padre ha concesso a Don Umberto il titolo di Monsignore ed allora era giusto che il Vescovo venisse a dirlo alla comunità spiegandone anche i motivi.

    Monsignore non è un uomo particolare.

    È un segno di riconoscimento conferito oggi a don Umberto per la sua vita, della quale voi sarete molto meglio di me capaci di raccontarne le opere, l’impegno, lo zelo, la passione, l’amore sacerdotale. Allora ho ritenuto opportuno chiedere al Santo Padre di poter riconoscere nella vita di don Umberto un segno di particolare benevolenza Sua e, vi devo dire, che in pochissimi giorni, cosa un po’ eccezionale, me l’hanno concessa.

    Adesso vi do lettura di questo documento un po’ solenne.

    Siccome in questa Parrocchia capite tutti il latino, c’è anche qualche brava professoressa, che nel caso, lo possa spiegare; io ve lo leggo in latino e poi ve lo traduco in italiano.

    Secretaria Status
    Summus Pontifex
    Joannes Paulus II
    inter Suos Cappellanos adlegit Rev.dum
    Dominum Humbertum Galeassi
    e Dioecesi Albanensi.
    Quod quidam eidem Rev. D.no Galeassi
    opportune significatur.
    Ex Aedibus Vaticanis, die XVI mensis Augusti,
    anno MMIV.
    Firmato Sandri subst

    Ecco facciamo tanti Auguri a don Umberto... (lungo applauso ed abbraccio con il Vescovo).

    Adesso don Umberto ci farà un bel quadro che gli ricorderà innanzitutto l’affetto, la stima e la benedizione del Santo Padre e anche un pochino di quella del Vescovo…vero?...., anche un pochino del Vescovo che lo ha amato e lo ama con affetto e con un rapporto di profonda, profonda stima”.

    Terminato l’annuncio del Vescovo è iniziata la Celebrazione Eucaristica. 

    Al termine della Celebrazione, prima della Benedizione, il Parroco don Umberto prende brevemente la parola per esprimere i suoi ringraziamenti:

    “Sia lodato Gesù Cristo, ... mi si consenta, di esprimere un pensiero. A dire la verità non senza commozione io ho appreso questa notizia da parte del nostro Arcivescovo. Non avevo mai pensato che si potesse verificare una onorificenza di questo genere. Vedo che viene data dal Santo Padre e io esprimo gratitudine e mi impegno ancora di più alla preghiera secondo le Sue intenzioni, ma, certamente, su proposta del Vescovo per cui alle tante espressioni di gratitudine che io dovrei, anche a nome vostro, (rivolgendosi all’assemblea.... ndr) dire all’Arcivescovo devo aggiungere anche questa: È doveroso riconoscere come Mons. Vallini è stato sempre vicino alla nostra comunità parrocchiale. Io devo dire, a nome vostro, grazie per le tante presenze e  artecipazione alla nostra vita di comunità.
    Grazie, Eccellenza, per averci dato conforto, luce; grazie per averci dato delle direttive precise alla luce dei convegni diocesani come sarà prossimamente nella Mariapoli di Castel Gandolfo. Grazie per il Suo magistero ricco di insegnamenti concreti.

    Noi l’abbiamo amata sempre. Le abbiamo voluto bene: lo è stato nel passato, lo è al presente e sono certo che non dimenticheremo mai questa bella figura di Pastore, quale è stata appunto, l’Arcivescovo Mons. Vallini. Certo nominalmente questa onorificenza è data al Parroco, però, in senso ampio, e più veritiero è come un atto di riconoscenza, un qualche cosa che voglia abbracciare tutti quanti voi, magari nella sollecitudine alle attività pastorali, magari, che vi posso dire, nel rispondere con generosità a tanti appelli. 

    Quindi, è da allargarsi a tutti quanti voi che siete presenti e a tutto il nostro popolo ferraiolino.

    Abbiamo ricordato anche recentemente la figura meravigliosa, stupenda di Paolo VI di venerata memoria. Io penso che ci sia, da parte nostra, il dovere di rivolgerci a Lui perché dal cielo, dove certamente ha già ricevuto il premio da Dio, possa ottenerci dal Signore, per la mediazione della Madonna Santissima, tante belle e sante vocazioni al sacerdozio. Ci auguriamo di poter davvero rivolgerci a Paolo VI e, chissà che avvenga anche, quanto prima di poterlo venerare nell’elenco dei Beati e dei Santi. 

    Ecco, da questa circostanza, formuliamo il buon proposito di continuare il nostro cammino, cammino di fede, cammino che ci impegna a sentirci una comunità viva con un cuore solo ed un’anima sola. 

    Al nostro Arcivescovo l’augurio di poterlo incontrare ancora e ci auguriamo presto e con quella dignità di cui sarà insignito. 

    Eccellenza ci ricordi sempre. Noi vogliamo essere nel suo cuore come Lei stesso sta nel nostro. Amen.” (applausi) 

    Al termine dei sentiti e commossi ringraziamenti del Parroco, l’Arcivescovo Sua Ecc. Mons. Vallini ha sentito il dovere di aggiungere... 

    Avete ascoltato come è buono don Umberto è vero? E non dobbiamo commentare!

    Auguri a Lui. È un segno di benevolenza del Papa… e dunque dal Papa, dal Papa sì accetta: poi… da questo Papa! Avanti, (esorta energicamente l’Arcivescovo) è un invito a diventare più giovane, più giovane di spirito com’è. Quando uno diventa Monsignore diventa giovane anche in salute, quindi adesso, allora ... buon lavoro, Don Umberto.

    Alla trascrizione integrale e fedele delle parole del Vescovo e di don Umberto, è doveroso sottolineare la calorosa partecipazione della comunità parrocchiale nell’apprendere la notizia di nomina a Monsignore del loro parroco che, per il suo stile di vita sacerdotale e per la sua umiltà personale, nonostante il meritatissimo riconoscimento, rimarrà per tutti loro, il caro don Umberto.

  • XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

    Mc 13, 24-32

    Anno B 

    Ci avviciniamo alla fine dell’anno liturgico; per questo la Chiesa ci fa leggere testi che sono in relazione con la distruzione di Gerusalemme e con la fine del mondo.

    Nel Vangelo il discorso di Gesù prende le mosse dalla domanda di un discepolo che resta ammirato di fronte alla magnifica co­struzione del tempio di Gerusalemme. Il re Erode il grande lo ave­va fatto ricostruire. Esso era veramente una costruzione impres­sionante.

    Gesù risponde a questa domanda con una profezia tremenda: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta». I discepoli allora chiedono precisazioni, e Gesù fa un lungo discorso nel quale la fine di Gerusalemme di­venta anche la figura anticipata della fine del mondo. Tuttavia in questo discorso non è possibile distinguere bene ciò che riguar­da la fine di Gerusalemme da ciò che riguarda la fine del mondo. Gesù mette in guardia i suoi discepoli dalla mancanza di vigilan­za, dicendo che occorre sempre essere attenti e vigilanti. Poco im­porta se la fine del mondo è vicina o lontana: occorre essere sem­pre pronti alla venuta del Signore.

    I profeti avevano annunciato eventi catastrofici. Questi eventi impressionanti annunciati ci devono far pensa­re al giudizio finale, nel quale saremo valutati in base alle nostre opere, e quindi ammessi alla vita eterna, oppure dannati. Ma dob­biamo avere sempre fiducia, e approfittare di queste predizioni per impegnarci di più nella nostra vita cristiana di unione a Cristo e di carità verso i fratelli.

    Similmente Gesù nel brano evangelico annuncia catastrofi: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a ca­dere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte». Sono immagini che Gesù riprende dai profeti per parlare degli even­ti finali.

    Allora si manifesterà il Figlio dell’uomo, cioè Cristo, il quale manderà gli angeli per riunire i suoi eletti. Queste persone dunque possono rimanere tranquille, ma a condizione di essere vigilanti.

    Poi Gesù dice: «Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nes­suno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre». Noi siamo nell’incertezza, e Gesù stesso afferma di non essere in grado di precisare il giorno e l’ora di questi even­ti finali (la fine di Gerusalemme o la fine del mondo). Questa con­dizione d’incertezza deve risvegliare in noi la vigilanza. È una con­dizione favorevole, perché ci costringe a impegnarci. Se cono­scessimo il giorno e l’ora della nostra fine, potremmo vivere sen­za impegnarci, sapendo per un certo tempo di non essere in peri­colo. Invece, non avendo questa certezza, dobbiamo essere sem­pre vigilanti.

    Il discorso di Gesù ha lo scopo di farci vivere in pienezza. Da una parte, esso ci libera dalla paura, perché Gesù ci assicura il suo aiuto e il suo intervento - se siamo uniti a lui, nessuna cosa ci può nuocere in modo definitivo -; d’altra parte, ci spinge a una vita d’impegno serio e fiducioso.

    Prepariamoci alla fine dell’anno liturgico con questi senti­menti di fiducia e di vigilanza. Fiducia, perché il Signore ci ha da­to tutto il necessario per vivere in pienezza e per giungere alla vi­ta eterna di unione con lui nell’amore. Vigilanza, perché sappia­mo di essere persone fragili, deboli, che si trovano in mezzo a tan­ti pericoli. Il male dilaga nel mondo, ma non dobbiamo permet­tere che esso ci contamini. Perciò dobbiamo ricorrere sempre al­la sorgente della grazia, per essere in grado di superare tutti i pe­ricoli, non soltanto senza esserne danneggiati, ma anche ripor­tandone un profitto spirituale.

    Viviamo con fiducia e vigilanza, sempre intenti a progredi­re nell’amore. Questa è la nostra vocazione fondamentale, che ci è data dall’offerta di Gesù, che ci rende anche capaci di rea­lizzarla.

     

  • XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della

     XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Mc 12, 41-44

    Anno B

     

    S. Ambrogio commenta:

     

    La Scrittura ... insegna anche come convenga essere misericordiosi e generosi verso i poveri e che non bisogna tirarsi indietro in considerazione della pro­pria povertà, perché la generosità non si valuta in base all'ammontare dei beni donati, ma in base alla disposizione d'animo con cui si fa la donazione. Pertanto le parole del Signore antepongono a tutti quella vedova di cui egli dice: Questa vedova ha dato più di tutti. Con tale giudizio il Signore da tutti un insegnamento morale: che nessuno, per la vergogna di essere povero, sia distolto dal prestare il proprio servizio; né i ricchi si facciano illusioni per il fatto che credono di dare di più dei poveri. Infatti vale di più una monetina presa dal poco che un tesoro at­tinto da una ricchezza grandissima, poiché si valuta non quanto si dà, ma quanto resta. Nessuno dà di più di chi non conserva per sé. Perché tu, che sei ricca, ti vanti al confronto con chi è povero? E mentre ti copri tutta d'oro, strascicando la veste preziosa per terra, come fossi da meno e pic­cola di fronte alle tue ricchezze, vuoi essere onorata perché hai superato nelle elemosine il povero? An­che i fiumi straripano quando ridondano; tuttavia è più gradito bere ad un ruscello. Anche i mosti spu­meggiano; quando fermentano, e l'agricoltore non giudica un danno ciò che si versa. Mentre le aie ge­mono, quando la messe è battuta, il grano salta fuo­ri; eppure, mancando le messi, l'anfora non manca di farina e l'orcio pieno d'olio gocciola. La siccità provocò l'esaurimento delle botti dei ricchi, mentre il minuscolo contenitore d'olio della vedova ridon­dava. Dunque non si deve considerare ciò che sputi per fastidio, ma quanto offri per devozione. Pertan­to nessuna ha offerto più di colei che ha nutrito un profeta con il cibo dei figli. E perciò, poiché nessu­na ha offerto di più, nessuno ha meritato di più. Questa è l'interpretazione morale. Tuttavia nemmeno a livello di interpretazione mi­stica è trascurabile questa donna che getta due dena­ri nel gazofilacio. È certamente grande costei che per giudizio divino ha meritato di essere anteposta a tut­ti. Forse è quella che, attingendo dalla sua fede, ha offerto in sostegno agli uomini i due testamenti e perciò nessuna ha fatto di più. E nemmeno alcun uomo ha potuto uguagliare in quantità l'elemosina di colei che ha unito la fede alla misericordia. Anche tu dunque, chiunque tu sia ... non dubitare di gettare due monete nel gazofilacio, perfetta come sei e nella fede e nella grazia.

    Beata colei che trae dal suo tesoro l'immagine inte­gra del re. Il tuo tesoro è la sapienza, il tuo tesoro è la castità e la giustizia, il tuo tesoro è il buon intel­letto, simile al tesoro dal quale i Magi trassero oro, incenso, mirra, quando adorarono il Signore, indi­cando con l'oro la potenza del re, manifestando con l'incenso l'adorazione a Dio, confessando con la mirra la risurrezione del corpo. Anche tu hai questo tesoro, se lo cerchi in te stessa. Infatti abbiamo un te­soro in vasi di creta. Questo è il tesoro che devi of­frire, perché Dio non esige da te il valore del metal­lo luccicante, ma quell'oro che nel giorno del giudi­zio il fuoco non può consumare. Né richiede doni preziosi, ma l'odore della fede che gli altari del tuo cuore esalano e la volontà della mente fedele spira. Dunque, da questo tesoro sono tratti non solo i tre doni dei Magi, ma anche le due monete della vedo­va, nelle quali risplende integra l'immagine del re celeste, lo splendore della sua gloria e l'immagine della sua sostanza. ... Gareggiate con costei, o figlie: infatti è buona cosa gareggiare sempre nel bene. Ga­reggiate per doni migliori. Il Signore guarda; vi guarda - ripeto - Gesù, mentre vi avvicinate al gazo­filacio e pensate di dover offrire una piccola moneta tratta dalla ricompensa per le vostre buone opere. Dunque qual gran cosa è che tu offra le tue monete e acquisti il corpo di Cristo. Perciò non presentarti a mani vuote di fronte al Signore tuo Dio, vuote di misericordia, vuote di fede, vuote di castità. Infatti il Signore Gesù non è solito guardare e lodare quelle che sono sprovviste, ma quelle ricche di virtù.

     

    (Dal Trattato Le vedove V, 28-32)

     

  • XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della

     XXXII Domenica del Tempo Ordinario

    Mc 12, 41-44

    Anno B

     

    S. Ambrogio commenta:

    La Scrittura ... insegna anche come convenga essere misericordiosi e generosi verso i poveri e che non bisogna tirarsi indietro in considerazione della pro­pria povertà, perché la generosità non si valuta in base all'ammontare dei beni donati, ma in base alla disposizione d'animo con cui si fa la donazione. Pertanto le parole del Signore antepongono a tutti quella vedova di cui egli dice: Questa vedova ha dato più di tutti. Con tale giudizio il Signore da tutti un insegnamento morale: che nessuno, per la vergogna di essere povero, sia distolto dal prestare il proprio servizio; né i ricchi si facciano illusioni per il fatto che credono di dare di più dei poveri. Infatti vale di più una monetina presa dal poco che un tesoro at­tinto da una ricchezza grandissima, poiché si valuta non quanto si dà, ma quanto resta. Nessuno dà di più di chi non conserva per sé. Perché tu, che sei ricca, ti vanti al confronto con chi è povero? E mentre ti copri tutta d'oro, strascicando la veste preziosa per terra, come fossi da meno e pic­cola di fronte alle tue ricchezze, vuoi essere onorata perché hai superato nelle elemosine il povero? An­che i fiumi straripano quando ridondano; tuttavia è più gradito bere ad un ruscello. Anche i mosti spu­meggiano; quando fermentano, e l'agricoltore non giudica un danno ciò che si versa. Mentre le aie ge­mono, quando la messe è battuta, il grano salta fuo­ri; eppure, mancando le messi, l'anfora non manca di farina e l'orcio pieno d'olio gocciola. La siccità provocò l'esaurimento delle botti dei ricchi, mentre il minuscolo contenitore d'olio della vedova ridon­dava. Dunque non si deve considerare ciò che sputi per fastidio, ma quanto offri per devozione. Pertan­to nessuna ha offerto più di colei che ha nutrito un profeta con il cibo dei figli. E perciò, poiché nessu­na ha offerto di più, nessuno ha meritato di più. Questa è l'interpretazione morale. Tuttavia nemmeno a livello di interpretazione mi­stica è trascurabile questa donna che getta due dena­ri nel gazofilacio. È certamente grande costei che per giudizio divino ha meritato di essere anteposta a tut­ti. Forse è quella che, attingendo dalla sua fede, ha offerto in sostegno agli uomini i due testamenti e perciò nessuna ha fatto di più. E nemmeno alcun uomo ha potuto uguagliare in quantità l'elemosina di colei che ha unito la fede alla misericordia. Anche tu dunque, chiunque tu sia ... non dubitare di gettare due monete nel gazofilacio, perfetta come sei e nella fede e nella grazia.

    Beata colei che trae dal suo tesoro l'immagine inte­gra del re. Il tuo tesoro è la sapienza, il tuo tesoro è la castità e la giustizia, il tuo tesoro è il buon intel­letto, simile al tesoro dal quale i Magi trassero oro, incenso, mirra, quando adorarono il Signore, indi­cando con l'oro la potenza del re, manifestando con l'incenso l'adorazione a Dio, confessando con la mirra la risurrezione del corpo. Anche tu hai questo tesoro, se lo cerchi in te stessa. Infatti abbiamo un te­soro in vasi di creta. Questo è il tesoro che devi of­frire, perché Dio non esige da te il valore del metal­lo luccicante, ma quell'oro che nel giorno del giudi­zio il fuoco non può consumare. Né richiede doni preziosi, ma l'odore della fede che gli altari del tuo cuore esalano e la volontà della mente fedele spira. Dunque, da questo tesoro sono tratti non solo i tre doni dei Magi, ma anche le due monete della vedo­va, nelle quali risplende integra l'immagine del re celeste, lo splendore della sua gloria e l'immagine della sua sostanza. ... Gareggiate con costei, o figlie: infatti è buona cosa gareggiare sempre nel bene. Ga­reggiate per doni migliori. Il Signore guarda; vi guarda - ripeto - Gesù, mentre vi avvicinate al gazo­filacio e pensate di dover offrire una piccola moneta tratta dalla ricompensa per le vostre buone opere. Dunque qual gran cosa è che tu offra le tue monete e acquisti il corpo di Cristo. Perciò non presentarti a mani vuote di fronte al Signore tuo Dio, vuote di misericordia, vuote di fede, vuote di castità. Infatti il Signore Gesù non è solito guardare e lodare quelle che sono sprovviste, ma quelle ricche di virtù.

     

    (Dal Trattato Le vedove V, 28-32)

     

  • Evviva l'Oratorio!

  • XXXI Domenica del Tempo Ordinario

    Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario

    Mc 12, 28b-34

    Anno B

    Episodio semplice, lineare, ma fondamentale. Siamo quasi al termine del Vangelo di Marco, che ha raccontato passo dopo passo la vita terrena di Gesù. Egli ha parlato e predicato in lungo e in largo, ha raccolto attorno a sé molti discepoli, ne ha scelti dodici, gli Apostoli.

    Ora è a Gerusalemme, la capitale della nazione ebraica. Ha posto il suo quartier generale a Betania, dove ha alcuni amici preziosi: i fratelli Ma­ria, Marta e Lazzaro. A sera torna da loro, fra pareti amiche, ma di giorno va al Tempio. Il Tempio è il cuore della religione ebraica. E Gesù sa che, continuando a predica­re il vangelo nel cuore dell'Ebraismo, la sua sfida sarà raccolta: presto verrà arrestato, condannato e messo a morte.

    Intanto molti accorrono a sentirlo, anche i capi, i sapienti, i potenti. Discutono con lui, e cercano di coglierlo in errore, per screditarlo. Gesù è costretto a sottolineare la loro cattiveria, li chiama ipocriti. Ma final­mente gli si avvicina un uomo pacifico, di buona volontà: uno scriba, uomo di cultura, che sa già tanto, ma è ben disposto e vuole imparare ancora.

    Gli scribi si occupavano della legge mosaica, di questioni di di­ritto, insegnavano anche nelle sinagoghe. E questo scriba rivolge a Ge­sù la questione fondamentale: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Era mia questione allora molto dibattuta. Gli esperti, studiando la legi­slazione ebraica, erano arrivati a enumerare 613 precetti, tra grandi e piccoli, che bisognava eseguire se si voleva ottemperare in tutto alla leg­ge mosaica. Ma non era possibile ricordarsi di tutti. Perciò si cercava un comandamento fondamentale, che li potesse unificare, e così riassu­mere in sé tutta la legge.

    Lo scriba — sembra di poter capire — pone la sua domanda a Gesù per­ché vuole scoprire il nocciolo della legge, e vivere in tutta onestà. E at­tende fiducioso la risposta del Signore.

    Gesù, che legge nel cuore degli uomini, non si fa pregare, e gli fa una mirabile sintesi degli insegnamenti che Mosè aveva dato. Anzitutto rife­risce le parole di Mosè che abbiamo udito nella prima lettura: «Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è l'unico Signore». Parole che indicano subito la caratteristica della religiosità ebraica: il monoteismo. C'è un unico Dio.

    Israele, un popolo piccolo, si differenziava dagli altri proprio perché cre­deva in un solo Dio, mentre gli altri erano fantasiosi politeisti. Pensia­mo ai greci e ai romani, con le loro mitologie sovrappopolate, con certi dèi — se si credeva ai miti — più mascalzoni degli uomini. Pensiamo a altri popoli che vedevano spiriti buoni e cattivi dappertutto, forze misteriose che aggredivano l'uomo e da cui bisognava difendersi. Gesù in­vece ribadisce la visione di un Dio unico, creatore, padre: Dio che ama le sue creature, e chiede il contraccambio.

    Ma non si ferma lì. Sul fondamento dell'unicità di Dio, Gesù colloca un doppio precetto: «Amerai il Signore Dio tuo..., amerai il tuo prossi­mo...». Assicura: «Non c'è altro comandamento più importante di que­sti». Cose che noi cristiani conosciamo bene. Ma non erano così ovvie allo scriba andato da Gesù.

    C'era nelle parole di Gesù una prima importante novità. Quei due pre­cetti nella legge antica non erano enunciati in quel modo, uno accanto all'altro. Figuravano addirittura in due libri diversi, il Deuteronomio e il Levitico. Gesù ora univa i precetti dell'amore di Dio e del prossimo, come se ne costituissero uno solo. Quasi due facce di una stessa medaglia.

    Gli Apostoli, alla scuola di Gesù, capirono presto che i due comanda­menti erano uno la riprova dell'osservanza dell'altro. È facile dire «io amo Dio», dal momento che è invisibile. Ma l'evangelista Giovanni ci ha avvertiti: «Se uno dicesse "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

    Con Gesù l'amore del prossimo diventa la prova concreta se si ama o non si ama Dio.

    C'è una seconda novità negli insegnamenti di Gesù, e riguarda il signifi­cato della parola prossimo. Mosè aveva insegnato agli israeliti a consi­derare come prossimo solo chi fosse veramente prossimo, cioè vicino, in senso fisico o quasi: i famigliari, i parenti, gli amici, quelli del pro­prio gruppo etnico.

    Invece Gesù ha detto in mille modi che vanno considerati prossimo tutti gli uomini, vicini e lontani, e perfino i nemici. Di fatto Gesù manderà i suoi Apostoli ai lontani: «Andate in tutto il mondo!». E nel discorso della montagna ha completato così la legge di Mosè: «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici, e pregate per i vostri persecutori».

    Ecco dunque le due novità portate da Gesù, che lo scriba non conosce­va: lo stretto legame tra i due comandamenti, fino a unificarli, e l'e­stensione della parola prossimo fino a comprendere lontani e nemici. Con queste novità, la riflessione religiosa e morale dell'umanità ha fatto un enorme passo avanti la rivelazione di Dio all'uomo si è fatta più ampia e profondale più impegnativa.

    Lo scriba dovette intuire subito la novità portata da Gesù, perché escla­ma entusiasta: «Hai detto bene!» E Gesù lo ricambia. Altri scribi si era­no meritati da Gesù epiteti pesanti, come «ipocriti, razza di vipere, se­polcri imbiancati». Lui invece si sente incoraggiare con le parole: «Non sei lontano dal Regno di Dio».

    Gli Apostoli hanno poi preso interamente su di sé il nuovo comanda­mento, e noi da duemila anni sul loro esempio cerchiamo di metterlo in pratica, La Chiesa primitiva e quella dei secoli successivi a poco a poco hanno cambiato il modo di pensare della gente.

    Oggi noi troviamo normale che ci si occupi di malati, bambini, anziani. Chi conosce la storia sa che tantissime istituzioni sociali desti­nate a loro sono nate nello slancio della generosità, e della creatività, cristiana.

    Tante volte alla loro origine ci sono persone che la Chiesa ha canoniz­zato: san Benedetto da Norcia, Francesco d'Assisi. Vincenzo de' Paoli, Camillo de Lellis, il Cottolengo, Don Bosco. E mettiamo anche gente non canonizzata (o non ancora): Ozanam, Follereau, Schweitzer, don Gnocchi, l'industriale Candia. E possiamo aggiungere dei viventi, co­me l'Abbé Pierre e madre Teresa. L'elenco non finirebbe più.

    Certo siamo sempre tentati dall'egoismo. Come quel Charlie Brown dei fumetti, che esclamava con enfasi: «Ma io amo l'umanità!», poi si strin­geva nelle spalle e ammetteva: «Sono le persone che non riesco a sop­portare». Siamo un po' tutti come lui, con i nostri egoismi da vincere.

    Dobbiamo perciò far andare insieme i due comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo. Pensiamo ai nostri cari, ai nostri amici, a quelli che lavorano con noi, che studiano, giocano con noi: si aspettano che siamo con loro solidali e amici.

    San Giovanni della Croce ci ha avvertiti: «Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore».

     

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