Commento al Vangelo della Domenica delle Palme
Lc 22,14-23, 22,14-23,56
Anno C
Volendo presentare delle riflessioni sul Vangelo della passione è inevitabile fare delle scelte. Anche perché gli evangelisti stessi ne hanno fatte, dando di quel fatto delle redazioni che rilevano e accentuano aspetti diversi. Qui ci si propone di indicare, a modo di brevi osservazioni, quanto nel racconto di Luca serve a dare un’idea di come Gesù si è posto di fronte alla croce, e di come ha reagito la gente che in quella circostanza è venuta a trovarsi accanto a lui o sulla sua strada.
C’è anzitutto come un’introduzione alla vicenda: quella che si usa chiamare l’istituzione dell’eucaristia (22,14-34). È un po’ il momento che fa da cerniera tra quanto sta prima e quello che viene dopo. Gesù ha speso una vita per preparare questo momento che egli dice di avere «desiderato ardentemente», e insieme a questo l’esperienza che egli invita i discepoli a vivere trova fondamento e significato in quello che immediatamente seguirà: la croce e la risurrezione. Qui si scopre il suo progetto: una comunità di amici radunata attorno alla mensa, dove il centro e il punto di incontro è lui, corpo che si dona, sangue, cioè «vita» che si offre (si noti la concretezza del «per voi» contrapposta alla genericità del «per la moltitudine»). La regola della nuova comunità è il dono di sé, e il segno ne è il servizio, perché lui sta in mezzo ai suoi «come colui che serve». Se c’è questo, c’è Gesù nella comunità: il resto è «segno», e il segno è serio nella misura in cui conduce alla realtà che significa. L’eucaristia è dunque educazione al servizio, perché questo è il senso del portare la croce, perché a chi sta attorno alla sua mensa Gesù dice: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove» (22,28). La «prova» suprema è appunto la croce, il momento in cui satana ci cerca per «vagliarci come il grano», come dice Gesù a Simone.
Questa premessa ci offre il criterio giusto per leggere la passione: è la «prova» attraverso cui passa Gesù, ed è la nostra prova: lui ci indica come attraversarla, è il modello dietro cui camminare. Il primo invito è «vegliate e pregate per non entrare in tentazione». Contro satana, che spinge al rifiuto del dono e del servizio, la difesa è la preghiera perché si riesca a fare la volontà di Dio. Sulla strada del sangue e dell’angoscia Gesù è passato prima di noi: Luca disegna il Cristo in agonia, cioè in lotta tra due scelte contrastanti, in modo da metterci davanti un quadro di riferimento. Peccato che gli apostoli fossero addormentati.
Di fronte a Giuda e alla turba Gesù non perde né la calma né la bontà. Potrebbe essere un’indicazione di quanta energia si raccoglie nella preghiera, e cosa si può fare quando se ne esce! A Giuda fa un richiamo delicato, al servo del sommo sacerdote guarisce l’orecchio che la violenza incontrollata di uno dei suoi aveva staccato. Durante i vari processi Gesù conserva un atteggiamento di dignitoso silenzio, di serena convinzione circa quello che è e che ha sempre affermato: riconosce che «è l’impero delle tenebre» ad avere ora la meglio, ma sa anche che «da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio». Mentre da una parte si volge a guardare Pietro che lo ha appena rinnegato, provocandone il pianto purificatore, dall’altra non risponde nulla alle «molte domande» di un Erode curioso di miracoli (che pena questo reuccio in vena di emozioni «religiose»!).
Sulla via del Calvario aiuta le donne a dirigere meglio la propria emozione: «piangete su voi stesse e sui vostri figli». È ancora e sempre quello che pensa più agli altri che a se stesso: non annega nel patetismo, invita le donne al pentimento, perché quella è la lezione da imparare. Sulla croce finisce in mezzo a due «malfattori», e chiude così la sua vita tra quel tipo di gente che era sempre andato a cercare con amore di predilezione: sono gli «ultimi», i rifiutati, i condannati: in mezzo a loro spenderà gli ultimi momenti.
Mentre la sua vita è agli estremi, Gesù torna a parlare: per invocare il perdono per chi lo uccide, per assicurare al ladro che lo porterà in paradiso con lui (non ci entra da solo, lui che era venuto sulla terra a cercare ciò che si era perduto), per mettere nelle mani del Padre la sua vita. Non grida la disperazione dell’abbandono, come in Marco e Matteo, ma si affida a chi lo salverà dalla morte. Da quanto dice sulla croce emerge in sintesi il Vangelo di Gesù: il perdono e la misericordia, la pazienza per quelli che «non sanno quello che fanno»; l’accoglienza di chi è messo da parte e rifiutato, ma che, a differenza degli altri, capisce la sofferenza dell’innocente; la totale e fondamentale fiducia in Dio, la certezza di averlo dalla sua parte sia nel momento del successo che nell’ora della prova.
Attorno a Gesù si muove tutta una folla di persone che reagiscono in vario modo a quello che gli accade, e se il modo con cui Gesù risponde agli eventi resta per noi il punto di riferimento da imitare, sarà molto più facile riconoscerci in uno o nell’altro dei comportamenti degli altri personaggi di questa vicenda. I discepoli non fanno una bella figura: uno di loro tradisce, gli altri discutono a tavola su chi è il più grande, durante l’agonia di Gesù dormono, poi reagiscono in modo inopportuno, spariscono infine dalla scena al momento più difficile (anche se Luca, con delicatezza, non registra questo fatto), riappaiono come un gruppo spaurito di fantasmi alla fine della storia: «Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano». Pietro poi va più avanti degli altri dietro a Gesù, ma per pasticciarsi: lo salva lo sguardo del Signore, e il pianto che ne segue.
I capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi sono gli avversari dichiarati di Gesù: non capiscono niente della croce, non accettano un salvatore che non è in grado di salvare se stesso, non afferrano l’enorme, assoluta positività del dono di sé, del perdere la propria vita: il loro «messia» è un altro, e quello che hanno davanti non corrisponde allo schema, e allora lo rifiutano. La croce è un assurdo: la si neutralizza. Ciò che siamo benissimo capaci di fare anche noi, perché ci sono tanti modi di uccidere Gesù, di cancellare la sua presenza. Pilato ed Erode appaiono tipici emblemi dei potenti di questo mondo: per il primo Gesù è «quest’uomo», «costui», un piantagrane in più, la cui sopravvivenza o soppressione conta solo in funzione della folla da accontentare e del proprio potere da salvare; per Erode Gesù è un «oggetto curioso», un giocattolo per far miracoli da veder funzionare. L’uno e l’altro entrano appena nella vicenda: Pilato non ha difficoltà ad «abbandonare Gesù alla loro volontà», Erode lo insulta e lo schernisce (è la stizza del potere che non può niente di fronte agli uomini liberi): i due diventano «amici», ma che triste amicizia!
La folla rimane una massa indistinta e disponibile: vuole la morte in croce, ma sulla via del Calvario troviamo ancora «una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui». Le donne sono emozionate, ma a loro Gesù ricorda che non basta piangere di fronte alla sua passione: l’atteggiamento giusto è ricordato più avanti, alla fine, quando Luca dice che «tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto» (23,48). Sono la sintesi delle «figure positive» di questa storia: Simone di Cirene, che riceve la croce per portarla «dietro a Gesù», come dovrebbe fare ogni discepolo; il malfattore, che riconosce Gesù innocente e si rivolge a lui chiedendogli di essere salvato, di rientrare nella sua innocenza; il centurione, il quale, «visto ciò che èra accaduto», proclama che Gesù è giusto, come a dire che ha imparato la lezione della croce.
Anche gli amici di Gesù, che assistono da lontano «osservano» tutto quanto accade è il minimo che ci venga richiesto. A rileggere la passione si può anche commuoversi, ma non basta; ciò che conta è capire dove conduce la via della croce, e dopo aver capito, cercare di camminare dietro a Gesù, come Simone di Cirene.